Fabrizio Verachi aka Giocca, nato rapper, vandalo buono e graffittaro si racconta in un video documentario voluto e realizzato in casa da Neia Dendè.
Tutto ha inizio negli anni '90, quando adolescente cerca altri appassionati di quella musica che lo aveva rapito: il rap. Svezzato con Apocalypse 91… The Enemy Strikes Black dei Public Enemy e poi con Rapadopa di Dj Gruff e tanti altri.
Trovata la crew con cui condividere musica e writing, il Woodoo Clan, iniziano i primi freestyle e le prime tracce: basi suonate con una tastiera e registrazioni casalinghe in presa diretta. Un metodo very old school con cui esce il primo demo datato 1996, Nel Woodoo, in una musicassetta fatta a mano.
Poi arrivano il PC e i campionamenti, ed ecco che nel '98 esce Satiricon, più evoluto nei suoni e nella registrazione pur mantenendo una produzione assolutamente artigianale. È l'inizio del progetto solista di Giocca che, come spiega nel video, sentiva l'esigenza di allontanarsi dalle atmosfere più cupe del Woodoo Clan per campionare jazz e funk in una continua ricerca di suono originale.
Arriverà presto il capitolo 2, dove l'MC sardo ci accompagnerà in un viaggio negli anni 2000, ma nel frattempo noi di Underground X lo abbiamo intercettato per fargli un paio di domandine succulente.
Ed eccovi serviti.
- L'uomo, il papà Giocca di oggi, cosa si porta dentro dell'adolescente Joka?
Quando riascolto le canzoni dei miei primi album a volte mi stupisco di quanto le mie idee sulla società e sulla musica fossero già chiare. In sostanza credo che la mia persona si sia formata in quegli anni, sia come uomo che come artista. Non trovo sostanziali cambiamenti nei miei principi e nella mia filosofia di vita da quei tempi. Quindi credo che il Giocca di oggi è sostanzialmente quello di 25 anni fa, stessa energia, stessa fotta, stessi ideali e stessa perseveranza. Ho solo aggiunto alla mia essenza tante esperienze, tante storie nuove, belle e brutte. Ho un pizzico di saggezza in più, un riguardo maggiore per le cose che scrivo e canto, dato che ora ho la coscienza di un padre e non voglio scrivere più nulla che possa essere un esempio negativo per i miei figli. Odio vergognarmi di qualcosa che ho scritto, ho sempre cercato di elevarmi e di sforzarmi di essere, come artista, una persona migliore di quella che magari ero. Ho sempre considerato Giocca il supereroe di Fabrizio. Quello che Fabrizio vuole essere. Fabrizio è qualcuno che può essere fallace, qualcuno che fa errori come tutti, che ha le sue insicurezze e le sue debolezze. Giocca no, Giocca è superlativo, tenace, invincibile.
- L'hip hop degli anni 2020 conserva ancora qualcosa dell'hip hop anni '90?
In realtà l'hip hop di oggi è lo stesso di anni fa. Conserva tutto lo spirito originale e continua a evolversi, ma è relegato per sempre nel sottosuolo, ora più che mai. Chi ha questa cultura e filosofia di vita rimane connesso alla storia della stessa, ai suoi principi e alle sue regole. Chi si avvicina oggi all'hip hop lo può fare con estrema facilità perché non è più una questione di passaparola, ora trovi tutta la storia e le informazioni sul web: le canzoni, i graffiti; se cerchi c'è tutto. Per il rap, ad esempio, io sono sempre stato un estimatore della musica underground e ho cercato gli artisti che mi ispiravano tra quelli che portavano quest'arte verso il livello successivo. Non era importante che l'artista fosse il più ricco, il più cliccato o il più popolare. L'importante era che fosse tra i più bravi, tra i più innovatori, tra quelli che dicevano cose più interessanti o che avevano più stile. E ancora oggi trovo ventenni che hanno questa mentalità, sono loro l'hip hop, e lo tengono vivo. Ma fuori da questo sottosuolo, nei media, nel web, la percezione di ciò che è oggi l'hip hop è diversa. Cerco di dare la mia interpretazione dei fatti: negli anni 2020 rispetto agli anni '90 è cambiato che il mercato ha preso il sopravvento sulla musica e sull'arte in generale. Un tempo il mercato seguiva le culture giovanili e cercava di accaparrarsele, per farci dei soldi su, senza pensare alle conseguenze a lungo termine.
Il mercato in passato ha promosso artisti come Rage Against The Machine, Public Enemy e Bob Marley. Gente che ha fatto musica rivoluzionaria, che ha contribuito ad attuare cambiamenti sociali importanti, creando una colonna sonora del cambiamento. Il mercato discografico ha scommesso su questi artisti, li ha resi famosi nel mondo sebbene lottassero per cause scomode. Non gliene fregava niente di quello di cui parlavano, i ragazzi compravano i dischi e riempivano le sale da concerto, e l'industria discografica faceva soldi.
Ma queste lotte, col senno di poi, minavano le basi stesse del mercato, un popolo con questi idoli che non è obbediente al mercato è incontrollabile dal sistema. Per questo, con il nuovo millennio, il mercato ha deciso di non investire più su artisti militanti. Ha pensato che fare soldi con artisti che parlassero di droga, violenza, misoginia fosse più sicuro e che propendere verso l'autodistruzione dei giovani, delle donne e delle minoranze fosse in linea con le idee di controllo sociale proposte dal capitalismo, il quale premia tutti con le sue belle macchine, le marche di vestiti alla moda ed il successo facile. Non è stato quindi più prerogativa dell'hip hop di occuparsi di problemi politici e sociali. Ma non perché gli artisti abbiano smesso di parlarne, semplicemente perché questo tipo di canzoni non sono più considerate rilevanti né degne di attenzione da parte del mercato.
Rispondendo alla domanda, nel 2020 è il mercato a stabilire le nuove mode e le culture giovanili. L'hip hop è morto, per parafrasare Nas, quando ha accettato di svuotarsi delle sue militanze per propagare messaggi edonistici e autodistruttivi per la sua comunità di riferimento. L'hip hop di oggi è uguale a quello di ieri, ma è underground e non può uscire da questa condizione per tornare a essere rilevante. Non può uscire perché non ha più accesso al mercato. Un ragazzo che si avvicina oggi all'hip hop ne ha quindi una visone distorta dal mercato stesso. È considerato un idolo giovanile solo uno che ha successo, è valido solo chi fa i numeri. E chi fa i numeri, per definizione del mercato, non può che essere un artista con messaggi edonistici e autodistruttivi, perché è questo che il sistema capitalistico e le nostre società occidentali hanno imposto al mercato.
Artisti obbedienti abbagliati dalla luce dei gioielli. Ragazzi che li idolatrano e vogliono esser come i loro idoli. Se invece decidi di essere underground senza compromessi sei un looser; se pensi con la tua testa non sarai mai famoso e non sarai mai rilevante. Così, per spirito di emulazione, i ragazzi vorranno essere come quegli ignoranti, fattoni con addosso le marche di alta moda, che saranno pure ricchi e famosi ma sono schiavi del sistema. Sognano di essere come loro, piuttosto che come degli sfigati rivoluzionari che nessuno si fila, semplicemente perché il sistema non glielo permette. A quel punto non serve neppure più il talento, serve che come artista reciti una parte. E questo spiega perché il trash impera, perché gli artisti si assomigliano tutti. Non conta più l'originalità o l'arte, conta che ti attieni al protocollo e che faccia successo. E per fare successo non serve studiare, distinguersi, fai prima a copiare papale papale chi ha avuto successo prima di te. Ricapitolando, quello che i media ci propongono ogni giorno non è hip hop, è un surrogato svuotato del suo contenuto per effettuare un controllo sociale. L'hip hop vero è vivo e vegeto in ogni angolo del mondo, lo fanno in tutte le lingue e in tutti i paesi. È anche una comunità creativa bella grande, che condivide gli stessi valori, che riconosce la stessa storia, condivide i principi e li difende con fierezza. Ma tocca cercarlo nell'underground. Libri, pubblicazioni, fumetti, blog, programmi, canali YouTube, eventi e situazioni curate da militanti di questa cultura. Grazie a Internet oggi è molto più facile avervi accesso, se solo si ha voglia di cercare.
Marcella Muglia
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