Gianni Maroccolo bassista e produttore, cuore pulsante del rock italiano degli ultimi trent’anni
con Litfiba, CCCP – CSI – PGR, Marlene Kuntz, e protagonista vitale di svariati altri progetti. L'ultimo in ordine di tempo è “Nulla è andato perso – da via dé Bardi 32 a Vdb 23“, un concerto che ripercorre i diversi momenti della sua carriera, dagli esordi con i Litfiba in via dé Bardi a Firenze, fino all'ultimo album omonimo realizzato con il compianto Claudio Rocchi.
Gianni, dopo quasi un'intera carriera nelle retrovie era probabilmente giunto il momento di mettersi nuovamente in gioco e di rinascere.
“Nulla è andato perso” è una contaminazione straordinaria di emozioni contrastanti. Come è nato questo spettacolo?
L'idea di questo concerto risale al 2012 e rappresenta una delle tante turbolenze creative nate dal meraviglioso rapporto umano tra me e Claudio Rocchi. Si parlò di un concerto che ripercorresse attraverso le nostre canzoni, ma non solo, oltre trenta anni di musica vissuta intensamente. Non tanto un auto-celebrazione delle nostre carriere, ma un viaggio emozionale che partisse dai primi accordi fino ad arrivare ai giorni nostri e al progetto che stavamo creando all'epoca: Vdb23/Nulla è andato perso.
Che difficoltà hai dovuto affrontare dopo la scomparsa di Claudio Rocchi?
Non è stato affatto semplice. Il legame con Claudio era forte e andava al di là della musica. Continuare con il progetto mi pareva fosse il minimo da fare, un atto dovuto insomma. Ma, di fatto, ero solo. Non sono un cantante né un frontman, dopo una vita vissuta in progetti di “insieme” mi sono detto: cosa ci faccio su un palco da solo? Ho passato quasi un anno pensando a come affrontare questa esperienza, a immaginarla, a immaginarmi in mezzo a un palco e non dietro, ma soprattutto a quelli che sarebbero potuti essere i miei compagni di viaggio.
Uno dei brani più intimisti è probabilmente LD7M - Les dernieres sept minutes de mon pere. Ci puoi dire qualcosa di più? C’è un aneddoto che racconti nei live...
Ha a che fare con la scomparsa di mio padre. Non saprò mai se si sia trattato di suggestione o meno, ma nel momento in cui morì fui avvolto da una sensazione di pace e di serenità difficile a spiegarsi. Ero felice per lui e lo sentivo felice, finalmente libero e altrove. Nel periodo di ACAU provai a scrivere una musica che descrivesse le sensazioni condivise con mio padre in quei momenti. Ricordo che mi venne di getto e che all'alba mi ritrovai lacrimoso di gioia ad ascoltare la versione finale. Ebbene, percepii la sua presenza e finito il pezzo l'hard disk su cui avevo appena registrato andò letteralmente in fumo... come dire: forse non era ancora il momento. Riprovai dopo un po' a riscriverlo e a registrarlo un'altra volta, fu un lavoro lungo e certosino perché lo volevo uguale. Giunto quasi alla fine attaccai un altro HDD per fare il back up e... da non crederci, nel transfer perdo la metà dei dati... risuono e riregistro subito le parti mancanti e ne faccio più copie. Durante la lavorazione di Vdb23 a casa di Claudio, in Sardegna, gli racconto questa esperienza e gli propongo di scriverci un testo. Il titolo è rimasto lo stesso: Gli ultimi sette minuti di mio padre ed è diventato credo anche il testamento spirituale di Claudio. Almeno a me piace pensarlo.
In quest’ultimo album il tema della rinascita è un filo che lega ogni traccia, che culmina nella suite “Hugs”, dove partecipano diversi ospiti, tutti compagni di viaggio nella tua interminabile carriera, un po' come accadde con il tuo primo album A.C.A.U. La nostra meraviglia. Come è avvenuta questa alchimia?
ACAU fu la mia prima esperienza solista anzi, multisolista come la definimmo all'epoca. Fondamentalmente è un album di duetti ispirati da un concept molto semplice: il mare, l'acqua, le profondità... non solo marine. Fu Hector Zazou, produttore del primo album di PGR, a spingermi a fare un mio album. Fino ad allora non ci avevo mai pensato. Avevo composto quasi due ore di musica pensando ad un disco interamente strumentale poi, una notte, mi resi conto che la “voce” mi mancava così come la “parola”, detta, cantata o sussurrata che fosse. Di getto scrissi una quindicina di lettere a quelle voci che da sempre, per una ragione o per un' altra, mi avevano emozionato pensando che forse qualcuno avrebbe risposto... e invece, risposero tutti di sì! Da non crederci. “Rinascere hugs suite” invece nasce in modo diverso. Il concept su cui ritrovarci era chiaro: la rinascita in tutte le sue possibili declinazioni e manifestazioni. Ad ogni ospite abbiamo fatto sentire solo la porzione di musica in cui avrebbero dovuto cantare e tutti hanno composto parole e melodie dei loro interventi senza avere alcuna idea del contesto generale del pezzo. È stata una sorpresa per tutti ascoltarla per la prima volta dall'inizio alla fine. Un piccolo gioiello alchemico.
Considerando il tuo passato artistico, dopo questo nuovo approdo o nuovo inizio, che ricchezza ulteriore hai acquisito?
Ancora non è chiaro quanto e come questa esperienza mi abbia arricchito. “Nulla è andato perso” è ancora in atto e ha sancito di fatto un possibile nuovo inizio da condividere con Antonio Aiazzi, Andrea Chimenti, Beppe Brotto e Simone Filippi. Certo è che questi concerti nel giro di poco si sono trasformati in un tour di ventitré date e sono stati condivisi con cinque, seimila persone. E questo è a dir poco fantastico e sorprendente. Rimane la soddisfazione di una scelta difficile che alla fine, perlomeno in termini di gratificazione artistica, ha pagato ed è stata accolta calorosamente. E non era affatto scontato perché era la mia “prima volta” senza la divisa di ordinanza del gruppo di turno. E poi si tratta di un concerto privo di qualsiasi sovrastruttura spettacolare, basico, minimale. Cinque musicisti su un palco che suonano per tre ore, cambiando quasi ogni sera scaletta, improvvisando moltissimo, senza nessuna concessione di tipo rituale. Insomma, piuttosto impegnativo per tutti in questi tempi. Cosa rimane è piuttosto chiaro: la piena consapevolezza di sapere ciò che di sicuro non farò... tutto il resto è possibile direi.
Nella tua carriera dai tempi dei Litfiba hai suonato e collaborato con artisti molto differenti tra loro, come Giovanni Lindo Ferretti, Franco Battiato, Cristiano Godano e lo stesso Claudio Rocchi. Come è stato dar musica al loro modo di scrivere?
È stato bello sotto ogni punto di vista. Non sono uno snob né un esterofilo, ma mi sono formato musicalmente ascoltando soprattutto musica inglese e più in generale, musica dei mondi. Per un lungo periodo della mia vita ho considerato la voce uno strumento, ma stando in Italia non si scappa dalla parola. Una volta capita l'antifona, ho cercato di collaborare con chiunque la usasse in modo alto e sono stato davvero fortunato.
Per la pubblicazione di Vdb23/Nulla è andato perso, come anche per Breviario Partigiano, hai portato avanti una campagna di crowdfunding tramite Musicraiser. Pensi che questa sia una via d'uscita per la musica indipendente?
Una via di uscita forse no, ma un'alternativa al mercato tradizionale sicuramente sì. Si può fare musica decidendo di saltare tutta la filiera provando a mettersi in gioco in modo diretto con chi è o potrebbe essere interessato a ciò che fai. Chi ha un minimo di notorietà come me forse è un pelo avvantaggiato da chi inizia da zero, ma in fondo quando io iniziai a suonare le cose non andavano meglio. Ora come allora, un musicista non poteva permettersi di fare musica e basta.
Ora parlaci da produttore, perché oggi in Italia il rock fa tanta fatica a ritagliarsi un degno spazio?
Giorni fa sulla mia pagina ho avuto una lunghissima discussione sull'argomento... spero di non essere frainteso, ma credo che il rock, perlomeno il fenomeno in cui sono cresciuto e che ho conosciuto, sia “abbastanza morto”. Da tempo si reiterano il genere, i rituali, l'immagine, il suono ecc... ma in un contesto totalmente diverso e in continua mutazione. Il rock sta diventando un po' come la musica classica o la lirica... generi musicali che hanno ancora una loro ragion d'essere forte, destinati però a divenire fenomeni sempre più di nicchia. La vita, che ci piaccia o meno, ci sta portando in altre direzioni e credo si debba essere consapevoli delle mutazioni in atto e del tempo che viviamo. E chi parla, sia chiaro è un rockettaro! Magari realista, ma non certo rinnegato. Se fino a qualche anno fa si faceva fatica, beh, ora è inevitabile ci sia da farne molto di più.
Marco Falchi